L’uomo è un essere sociale. La ricerca di legami con altri esseri umani e di un senso di appartenenza è qualcosa che ci accomuna tutti, a prescindere dal background: stare a contatto con l’altro è essenziale per definire la nostra stessa identità.

Storicamente, tuttavia, le realtà lavorative sono spesso state pensate e organizzate, anche fisicamente, mettendo in secondo piano il fattore della socialità a vantaggio di altri aspetti ritenuti più importanti. Pensiamo, ad esempio, all’epoca del fordismo e alle catene di montaggio: tutto il focus era riposto sul processo e sulla sequenzialità del lavoro. Oppure pensiamo ai diffusissimi cubicoli che, a partire dagli anni 70, hanno invaso i nostri uffici: qui il focus era il task, la concentrazione, l’ottimizzazione spaziale. Ogni epoca, insomma, ha i suoi “buoni motivi” per separare le persone e privilegiare “altro”. E, a pensarci bene, oggi non siamo poi così diversi, solo che a separarci stavolta non sono più i muri o le macchine ma gli schermi.

Questa separazione è qualcosa che nel corso dell’ultimo anno in molti hanno avuto modo di vivere sulla loro stessa pelle, con la pandemia che ci divideva e ci faceva sentire più soli e isolati. Eppure, non stiamo parlando di un fenomeno nuovo. Dall’altra parte dell’oceano, già nel 2017, la rivista Harvard Business Review parlava addirittura di un’”epidemia della solitudine” nell’omonimo articolo Work and the Loneliness Epidemic. In Giappone e nel Regno Unito esiste da alcuni anni il Ministero della solitudine, incaricato di risolvere i problemi sociali ad essa legati. Nonostante la solitudine venga frequentemente considerata uno stato d’animo privato, gli studi dimostrano che si tratta di un fenomeno sociale con forti ripercussioni a livello organizzativo, tra cui il peggioramento delle dinamiche di team e il calo della performance¹.

Negli ultimi anni, in Italia si parla molto dell’importanza della cultura aziendale e, parallelamente, dell’aumento del burn-out lavorativo. Per creare ambienti di lavoro in cui le persone stanno bene, è fondamentale affrontare proattivamente anche il tema della solitudine e del bisogno di instaurare rapporti autentici e umani.

In tal senso, cosa possono iniziare a fare le aziende per rispondere a questo bisogno? Ecco alcune idee.

Mentorship

A volte un “volto familiare” può fare la differenza. In diverse realtà, nella fase di onboarding, ai nuovi dipendenti viene assegnato un “mentor” che li seguirà e li aiuterà ad ambientarsi nel contesto aziendale. Al di là di questo importante aspetto pratico, un sistema di mentorship contribuisce a creare un’atmosfera in cui le persone creano legami umani e hanno a cuore il benessere dei propri colleghi. Anche le nuove tecnologie sono subito intervenute per ovviare alla perdita della dimensione relazionale del smart working imposta dall’emergenza ma è evidente anch’esse vanno gestite e guidate opportunamente in ogni differente realtà.

Community

Quanto conosciamo davvero i nostri colleghi? Le persone sono molto più del ruolo che ricoprono in azienda. Hanno passioni, hobby, talenti. Dare loro la possibilità di esprimere tutto questo può essere la base per conoscere nuove persone. L’HR può essere promotore di questa iniziativa raccogliendo informazioni su ciò che sta a cuore alle persone e mettendo a disposizione risorse (anche semplicemente una bacheca su cui promuovere eventi) e spazi in cui le persone possono incontrarsi e organizzare attività e uscite extra-lavorative. Spesso basta semplicemente una spinta iniziale e le iniziative che ne nasceranno potrebbero veramente sorprenderci.

Team Building

Nel team building, dove le attività seguono tempi e metodi predeterminati, è possibile arrivare a confrontarsi su temi molto profondi, cosa che più difficilmente accadrebbe alla macchinetta del caffè o altri comuni luoghi di ritrovo. Nell’azienda Arnold and Havas Media vengono organizzati dei workshop per promuovere l’empatia. Da un mazzo di carte, le persone pescano una domanda di auto-riflessione (ad esempio: “cosa mi rende unico?”) e, prima di rispondere, descrivono innanzitutto la loro reazione di pancia alla domanda stessa (ad esempio: “mi sento in soggezione”, “ho un vuoto”, “mi fa sorridere”). Successivamente, viene data anche alle altre persone la possibilità di condividere o di rispondere direttamente alla persona. Ed è proprio questo che aiuta a generare empatia, poiché le emozioni vengono esternate e i colleghi possono mettersi uno nei panni dell’altro.

Il ruolo delle aziende

Nonostante il senso di solitudine al lavoro possa derivare in gran parte da fattori esterni, come ad esempio la vita privata e i cambiamenti e ritmi frenetici della società moderna, c’è comunque molto che le aziende possono fare per favorire il benessere sociale delle loro persone. Dopotutto, sono anch’esse realtà sociali strutturate, dove le persone passano circa un terzo della loro vita. In questo articolo abbiamo scelto di raccontare alcuni esempi di azioni concrete che un’organizzazione può mettere in campo per generare un impatto positivo sui rapporti umani tra colleghi. Le possibilità sono molte e questo è un invito a credere nella capacità delle organizzazioni che rappresentiamo e in cui lavoriamo di plasmarsi come la società in cui vorremmo vivere.

BIBLIOGRAFIA

¹ Ozcelik, Hakan, and Sigal G. Barsade. “No employee an island: Workplace loneliness and job performance.” Academy of Management Journal 61.6 (2018): 2343-2366